PASSEGGIANDO PER IL “SOMEWHERE BOULEVARD” DEI PREDARUBIA
Si chiamano PREDARUBIA
e sono una rock band toscana composta da: il cantante Giuseppe
Pocai, il bassista Luca Mori, il chitarrista Massimo
Triti ed il batterista Zivago Anchesi, formatasi nel 2013.
“SOMEWHERE BOULEVARD"
è il titolo del loro primo album, edito da LATLANTIDE, che è
stato distribuito nei principali digital store e nei negozi di
dischi da EDEL, l’8 Settembre 2107. “SOMEWHERE BOULEVARD”
è suddiviso in undici brani inediti, ognuno dei quali come
tasselli di un puzzle, compongono tutta l’essenza della band
e ciò che ne esce è rock allo stato puro,vissuto in tutte le
sue sfaccettature. Un disco quindi variegato, che sventra ogni fibra
del tessuto del rock e strappa ogni nostra pretesa di etichettarli in
sottogeneri: possiamo magari provarci, ma qualche dettaglio ci
sfuggirà sempre
I Predarubia ci colpiscono
con bacchette, piatti sbattuti con vigore, corde tirate al massimo,
lambendo tutti i confini del rock: dal rock’ n’ roll al gospel,
dal grunge al blues, dall’hair rock al prog, dalla psichedelia al
southern rock.
Il brano d’apertura
s’intitola ‘Not in my name’ e ha l’effetto di quelle
luci psichedeliche dei palchi, a quella specie di fumo
“allucinogeno”, ricreando la tipica atmosfera da concerto,
disorientandoci con ipnotiche distorsioni delle chitarre e schiaffi
ai piatti della batteria.
I Predarubia, infatti,
mettono in chiaro fin da subito, che in questo disco la musica la si
può respirare come aria. la si può assaporare come cibo, in una
parola: ‘la si vive’. Ogni strumento prende vita e si
scaraventa con violenza, a ricordarci che la musica si suona
ancora, anche in un’ epoca così digitale. Le corde vengono usate
come fruste, tirate con decisione e vigore, possiamo quasi immaginare
le dita callose e insanguinate di Luca Mori e Massimo Triti, possiamo
percepire il sudore,la fatica e la liberazione. Un album nel quale la
musica viene masticata: riff e assoli, sono ‘pane per i loro denti’
,perciò chi è affamato di buona musica si prepari ad un pranzo coi
fiocchi!
Il brano Not in my name”,
grazie ai toni ammiccanti del basso, gli arpeggi sconvolgenti della
chitarra e una vocalità potente se ne sta lì, come come una femme
fatale, pronta a sedurre.
Per la seconda traccia del
disco, ‘Carousel off’, ancora fumo che ci fa socchiudere
gli occhi, ci annebbia la vista e bastano poche note per ritrovarsi
poi, a camminare per le strade di Seattle, guidati dalla voce
di Giuseppe; una voce cavernicola, non lontana da un certo Eddie
Vedder dei Pearl Jam sporca e grezza propria di ogni grunge band che
si rispetti. Un ritmo incalzante sostenuto da vigorose percussioni,
giri di basso e assoli di chitarra.
Nel ritornello si aggiunge
poi un soffuso coro di voci, come un invito ad unirci a cantare con
loro e l’aggiunta di questa “spezia” dal sapore gospel, rende
il piatto più particolare e gustoso che mai, e il non saper
definirlo, lo rende ancora più buono. Un brano, potremmo dire,
dylaniato nel riproporre quel Robert Zimmerman dei primi anni
‘70 unite però sempre al grunge.
La terza traccia
dell’album,‘Rip’, come un ladro ci prende e aggredisce
inaspettatamente. Il giro di chitarra iniziale di Massimo, dove le
corde diventano unghie, graffiandoci e lasciandoci con la pelle
d’oca. Subentra poi, quasi strisciando, il potente basso di Luca e
a sferrare infine il suo pugno, la batteria di Zivago. Inizia così
una lotta a ritmo di rock, che proseguirà per tutti i 4,24
min e in cui la voce sporca e potente di Giuseppe, richiama quella
aggressiva e a tratti urlata che John Lennon sperimentò nel brano
Helter Skelter . Rip, infatti,crea un sound che riprende i
grandi classici come “Woman from Tokyo” dei Deep Purple per il
mood, nonchè
“Revolution” dei
Beatles, canzone questa, che fu prototipo dell’hard rock.
Subentrano poi gli
accordi pizzicati di ‘Yesterday’. Un riff iniziale che
leggiadro, come il volo di una libellula che si libra nel cielo e
mentre si allontana, si rimpicciolisce sempre di più fino a
scomparire e noi, ci troviamo a vedere che, nel punto del cielo dove
prima compariva come un puntino nero, ora si scagliano lampi: sono
l’incidere cadenzato della batteria, a cui seguono i tuoni, portati
dal tono cupo del basso. Sentiamo poi gocce di pioggia sfioraci…ma
no, la pioggia ancora non è cominciata: sono lacrime, straripate
dagli occhi, lacrime trascinate da questa accorata melodia.
“Yesterday” è una ballad distesa e dilatata, dove la voce
profonda di Giuseppe, possiede un timbro potente ma soffuso, come
quello di Gavin Rossdale dei Bush e con riecheggi al brano One
Headlight dei Wallflowers.
Con ‘A girl named Hope’ lentamente, ci ritroviamo a passeggiare per le strade di Philadelphia, come quel famoso brano di Bruce Springsteen: lo abbiamo imparato ormai, più ci addentriamo in questo labirinto di suoni, più ci scontriamo con i grandi classici che hanno fatto la storia del rock, ma che mai si confondono del tutto, poiché in ogni brano, è ben delineato il tratto dei Predarubia: una miscela di generi esplosiva, che ci fa muovere e commuovere, che ci lascia sospesi in un tempo indefinito, ridando vita a quel rock ‘n ‘roll che negli anni ‘60 faceva la Rivoluzione. Un bellissimo brano rilassante, distensivo che c’incanta per la delicatezza e, come una lenta discesa di una foglia che a ritmo del vento si stacca dal ramo e si sdraia pian piano nel terreno.
‘Intermezzo’,è
un breve brano in pieno stile grunge, che nel giro di chitarra, le
percussioni, il suono crudo del basso e l’ assolo di chitarra
elettrica di Massimo, ci taglia e squarcia come una lama,
richiamandoci a band come gli Stone Temple Pilots..
Con ‘Somewhere baby’,
dovete correre in garage, togliere il telone impolverato che ricopre
la vostra moto e salirci su ,perché questa è la on the road
track del disco, la hit estiva, che trasuda spensieratezza…qui
si sprigiona il bellissimo southern rock dei Predarubia.
‘One day’ è
un brano dal ritmo incalzante,con chitarre distorte in stile Jimi
Hendrix, per poi finire di nuovo a quel Dylan degli anni 70 con un
coro dai tratteggi gospel/blues.
L’ottava traccia
è ‘Heaven unnessary’ , in pieno stile rock ‘n ‘roll
che scivola via, come un fiume dall’acqua cristallina: bello
,limpido, fluido, le percussioni si scagliano contro le rocce, per
scendere giù in picchiata in una splendida cascata di suoni.
In‘The waiting song’
,sopraggiunge una voce quasi aspra, rude e sorprendentemente
avvolgente, che nel timbro ricorda i mitici W.A.S.P. e ci accarezza
davvero l’anima.
E’ un lento addio
cadenzato da un accurato arrangiamento, dove un giro di basso e
chitarra diventano come due falene che girano attorno al fuoco:la
voce calda di Giuseppe, che ci culla in questa power ballad dalle
atmosfere anni ‘80. Un ipnotica ballad struggente che ridesta il
lato più romantico, ci sentiamo come cullati, mossi tra le onde
mentre stiamo galleggiando sospesi nel mare, momenti in cui la mente
si svuota e si lascia trasportare.
Il disco si chiude con ‘In
the distance’,un brano energico e spensierato che si fa
cantare, dai tratti punk dei Sex Pistols.
Un trascinante groove ci
riscuote, anche grazie alla maestria di Zivago alla batteria, il
basso accattivante di Luca e il riff di Massimo.
La musica dei Predarubia
corre più veloce delle nostre parole, arriva con immediatezza
irrompendo nelle nostre orecchie e a quel punto saranno loro a
catturare noi, con il loro sound intrigante e possiamo solo rimanerne
ammaliati da come questi quattro toscani ci catapultino per le strade
di Seattle, la ‘capitale del grunge’.
“SOMEWHERE BOULEVARD”
è un album che già ci stuzzica la voglia di sentirli live, perché
per i Predarubia, la musica, deve essere una sorta di preda e
con questi undici brani, sono stati ben capaci di intrappolarla, per
poi apportane tutta la sublimità che il loro sound ha saputo
esprimere.
Alice Bellin
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